Commento all’Articolo di Baker, McFall, Shoham – Lucio Sibilia
* A) Quale statuto scientifico-epistemologico per la psicologia clinica? La psicologia clinica ha aspetti sui generis come scienza oppure no?
La psicologia clinica non ha e non si capisce perché debba avere uno statuto scientifico particolare. Se per “statuto” si intende un insieme di principi che servono a definire un’attività e/o il sapere che ne deriva come scientifico, allora, in quanto scienza, anche la psicologia clinica avrà (e già lo ha in molti dei suoi settori e autori) lo statuto di qualunque attività che chiamiamo scienza. Infatti, lo “statuto” non può derivare dall'”oggetto”, come qualcuno pretende, e neanche dalle particolari metodiche che lo studio dell’oggetto richiede, diversi da disciplina a disciplina scientifica. Piuttosto deriva dalle modalità di verifica della validità delle proposizioni che derivano da quello studio. Queste proposizioni, passate al vaglio empirico e logico per il controllo delle possibili fonti di errore, diventano conoscenze, sia pure di natura provvisoria. Questa modalità di procedere nella scienza, quindi, non deriva e non può derivare da “epistemologie personali”, che possono tutt’al più essere fonte di ipotesi. Non sono modalità che discendono dall’intuizione, dalla tradizione, dall’autorità, dall’inconscio, dal dogma, da ideologie, o dalla superstizione, bensì sono solidamente radicate nell’approccio logico-empirico.
* B) Quale ricerca empirica per la psicologia clinica? A che punto è il dibattito sulla ricerca basata sull’evidenza? Quali altre tipologie di ricerca empirica sono considerate attendibili?
La ricerca scientifica non è affatto “basata sull’evidenza”. “Evidenza” è un termine che rimanda alla logica, che pure ha un ruolo nel lavoro scientifico ma non lo esaurisce, oppure rimanda all'”apparenza”, che riguarda l’interfaccia tra i fenomeni e la loro percezione, spesso ingannevole, da parte dell’uomo. Se la ricerca scientifica si basasse sull'”evidenza”, nel senso di evidenza logica, allora solo la matematica sarebbe una vera scienza. Se la ricerca fosse invece basata sull’evidenza nel senso di “apparenza”, allora crederemmo ancora al geocentrismo (è “evidente” che il sole gira intorno alla terra e non viceversa) e non saremmo approdati all’eliocentrismo. “Evidenza” è solo una traduzione maccheronica del termine inglese “evidence“, che invece va correttamente tradotto come “prova sperimentale” in ambito scientifico, così come significa “corpo del reato” in ambito giuridico. La traduzione di “evidence” in evidenza, perciò, per quanto molto in uso nel nostro Paese, è assolutamente grossolana e quindi scorretta. Naturalmente non si tratta solo di una questione nominale. L’impresa scientifica ha inizio non appena ci chiediamo se le nostre osservazioni (magari tratte da “apparenze”) possono contenere un errore, e quindi ci impegniamo a verificarlo, cercando di controllare appunto le possibili fonti di errore. Il risultato empirico (“evidence”) potrà confutare o corroborare l’osservazione, costituendo una “prova”. Questa in nuce è la base del metodo osservativo e sperimentale. Da quanto sopra, ne deriva la posizione che eventuali dibattiti sulla “ricerca basata sulle evidenze” devono prima sciogliere questa ambiguità semantica.
Premesso questo e adottando l’espressione nel senso corretto di “ricerca basata sul metodo osservativo e sperimentale”, allora si può già rispondere che qualunque tipologia di ricerca è ammissibile in psicologia clinica, con una unica eccezione. L’eccezione riguarda quelle “ricerche” che fanno uso del concetto di “inconscio”, o altri concetti non riconducibili in alcun modo a dati osservativi. Infatti, il concetto freudiano di inconscio consente di affermare che qualunque variabile vi sia ipotizzata (siano desideri, pulsioni, motivazioni, fantasie, conflitti, ricordi, ecc…), questa possa avere manifestazioni sia di un certo tipo che del suo esatto opposto, o di qualunque altro genere. Da ciò deriva immediatamente che, se ci si collega alla teoresi psicoanalitica, almeno quella ancorata al concetto di inconscio, non è possibile procedere ad alcuna verifica sperimentale, né controllo di errore di qualsivoglia tipo di asserzione che abbia un contenuto empirico.
* C) Quale rapporto esiste tra il mondo della ricerca empirica in psicologia clinica ed il mondo della pratica clinica in Italia? Perché i clinici diffidano spesso della ricerca empirica? Perché i ricercatori dialogano poco e niente con i clinici?
I clinici dialogano poco con i ricercatori perché la ricerca scientifica (che non è solo “empirica” ma logico-empirica!) di base è sottovalutata nella clinica. Vi sono una varietà di posizioni e di convinzioni tra i clinici, che ho chiamato “miti” (v. Sibilia, 2009), che producono una varietà di atteggiamenti, dalla diffidenza verso i metodi e/o verso i risultati alla palese ostilità, che ostacolano l’adozione dei saperi derivanti dalla ricerca, nonché la loro diffusione nell’insegnamento e la formazione. Per esempio, la formazione clinica – sia degli psicoterapeuti che degli psichiatri – è spesso molto carente sul versante metodologico. Molti docenti, anche universitari, adottano quelle che sono state chiamate “epistemologie personali”. Se si guardano i numerosi programmi di formazione delle Scuole di psicoterapia in Italia, si potrà notare che quasi sempre ne viene esclusa la preparazione metodologica. A mio avviso, invece, è proprio sulla qualità della ricerca che può poggiare un valido insegnamento in psicoterapia come in psicologia clinica. Inoltre, è proprio la preparazione metodologica che consente agli allievi di capire quali studi siano attendibili e utili e quali invece deboli o irrilevanti.
* D) Qual è il rapporto della psicologia clinica con la medicina, analogie e differenze? Perché Baker et al. considerano la psicologia clinica nello stesso solco storico della medicina?
La psicologia clinica ha la potenzialità di aiutare a colmare il divario che storicamente si è formato tra le scienze del comportamento e della mente da una parte e le scienze biomediche dall’altra. Questo divario attualmente si traduce spesso in contrapposizioni, antagonismi, gelosie o veri e propri conflitti sul piano professionale, talvolta con tentativi di discredito verso i reciproci campi. Si producono così antinomie teoriche che sfociano in contrapposizioni sterili, che non aiutano né il progresso scientifico né i pazienti. Non solo, ma in un ambito culturale più generale, si sta svolgendo una vera e propria battaglia sulle concezioni della scienza; questa battaglia (“science wars”) vede da un lato molti rappresentanti di varie scienze sociali impegnati a cercare di svilire la conoscenza scientifica a mera “costruzione sociale”, seguendo mode “post-moderne”, e gli scienziati più impegnati nella ricerca, dall’altro, a difendere da questi attacchi il contenuto conoscitivo della scienza logico-empirica. In questo contesto, non sorprende che il rapporto tra psicologia clinica e medicina non sia sempre sereno. Ad esempio, molti psicologi clinici, soprattutto di formazione psicodinamica, preferiscono assegnare alla psicologia clinica un valore “ermeneutico” e non seriamente conoscitivo. Salvo poi trascegliere singoli risultati di questa disciplina che possano sembrare conferme del proprio approccio. Questa modalità di procedere è proprio quella cha portato al discredito della psicologia clinica, evidenziato da Baker e coll.
Tuttavia, e nonostante ciò, sia sul piano della pratica clinica che sul piano della teoresi scientifica, già si intravede il profilo di una realtà nuova. Nei servizi, molti psicologi clinici e psicoterapeuti già lavorano in sintonia con i medici più preparati. Sul piano scientifico, sta emergendo un approccio, sia in psicologia clinica che in psichiatria, che consente di sussumere le ricerche sperimentali in un quadro teoretico unitario, talvolta impropriamente chiamato “integrato” oppure “olistico”, ma che può essere chiamato propriamente e già da tempo viene chiamato “bio-psicosociale”.
Baker et al. non “considerano la psicologia clinica nello stesso solco storico della medicina“, ma affermano – con buoni motivi – che la psicologia clinica potrà avere lo stesso credito pubblico che attualmente detiene la medicina, solo allorquando sarà in grado di documentare i suoi veri successi al grande pubblico e quindi ai decisori.
* E) Qual è il ruolo e l’incidenza dell’economia sanitaria e assicurativa sulla ricerca in psicologia clinica? Quali effetti di azione e retroazione si producono sulla ricerca e sul suo linguaggio laddove la pressione di interessi economici elevatissimi spinge in alcune direzioni anziché altre?
La pressione economica ha potuto avere, se l’ha avuta, un’incidenza sulla direzione delle ricerche in psicologia clinica solo di recente. Invece, su questo è cresciuto uno dei miti cui ho accennato, che ho chiamato il “mito dell’economicismo”. Se si prendono ad esempio le ricerche sull’efficacia delle psicoterapie, questo mito, come ho già scritto altrove (v. Sibilia, 2009), afferma l’idea, senza tuttavia il sostegno di prove fattuali, che le finalità di contenere i costi delle psicoterapie siano state la motivazione primaria di questa tradizione di ricerca. E’ noto invece che fu la Divisione 12 della American Psychological Association (APA) a stimolare la pubblicazione di elenchi di trattamenti sostenuti da prove (i TSP), allo scopo di difendere lo status delle psicoterapie, e quindi la legittimità del lavoro degli psicologi, in un contesto culturalmente dominato dalla psichiatria biologica (v. anche Castelnuovo et al., 2004). Una seconda idea, consonante con questo mito, e anch’essa empiricamente infondata, è che le necessità economiche favoriscano le terapie brevi e perciò vadano a detrimento della cura del paziente, fornendo delle soluzioni a buon mercato ma di breve durata, che non possono costituire “vere guarigioni”. Come se fosse dimostrato che le psicoterapie più lunghe fossero più efficaci e potessero ottenere “vere guarigioni”.
Non si può ignorare invece il fatto che questo tipo di indagine scientifica sull’efficacia sia iniziato molto prima che i costi dell’assistenza pubblica premessero sulle politiche sanitarie, e favorissero così, almeno in campo biomedico, l’emergenza della Evidence-Based Medicine. Baker et al. prevedono, a mio avviso correttamente, che un movimento analogo si verificherà in psicologia clinica. Un movimento analogo alla EBM, tuttavia, già si sta verificando, anche se tale ambito è ancora inquinato da alcuni stereotipi o conformismi “scientifici”, che ho chiamato “miti”, così come la medicina lo era circa un secolo fa.
* F) Quale formazione di qualità per gli psicologi clinici? Quale accreditamento possibile? È possibile in Italia controllare la qualità della formazione dentro un sistema unicamente autorizzativo?
Il principale problema riguarda la psicoterapia, non necessariamente l’intera psicologia clinica. L’attuale sistema italiano, comunque lo si qualifichi, cioè se “autorizzativo” o meno, non controlla la qualità della formazione in psicoterapia. Eppure potrebbe farlo, con la legislazione vigente. A mio avviso, dipende dalla composizione della Commissione cui è demandato il compito. Bisognerebbe soltanto che prevalesse una mentalità ed una cultura “scientifica” in senso lato. La qualità della formazione, in analogia con la qualità delle cure, potrebbe essere semplicemente verificata attraverso il confronto tra gli obiettivi e i risultati. E’ proprio questo infatti il nocciolo stesso del concetto di qualità. In altri termini, basterebbe verificare che: a) ogni scuola di psicoterapia dichiarasse esplicitamente (cioè con linguaggio non gergale) il profilo di competenze che intende formare e che questo profilo sia ragionevolmente adeguato al ruolo di psicoterapeuta, b) dichiarasse il metodo con cui intende operare per svolgere o con cui effettivamente svolge la verifica di tali competenze negli allievi, c) esista una congruenza tra tale profilo (a) e tale metodo (b), d) il metodo venga effettivamente applicato a verificare le competenze, ed infine e) dalla verifica esiti un risultato positivo, cioè che le competenze siano effettivamente create negli allievi della scuola. Non ci sarebbe bisogno in questo modo di alcun organo o struttura speciale “di garanzia”: potrebbe bastare un semplice un codice di autodisciplina. Questo codice richiederebbe di osservare i punti suddetti, magari con il controllo esterno di un apposito organismo pubblico dipendente dagli ordini professionali (sia medici e che psicologi). Anche l’attuale Commissione, ad esempio, potrebbe svolgere queste verifiche, che tuttavia non sa svolgere.
Il problema quindi c’è e giustamente Baker & coll. lo mettono in evidenza: la psicologia clinica non ha il credito pubblico sufficiente, e comunque non quello della medicina, perciò non può dispiegare in pieno i suoi effetti, soprattutto perché la sua scientificità non è pubblicamente riconosciuta. A mio modesto avviso, non potrà essere riconosciuta fintantoché vigerà un principio che chiamerei di “soggettività epistemologica”. Per inciso, nel nostro Paese purtroppo non è neanche sempre riconosciuta la necessità della sua scientificità. Quello che invece rende veramente perplessi è la soluzione che gli autori propongono, cioè la costituzione di un apposito organo, di carattere eminentemente privato, cui sarebbero demandate tali verifiche di scientificità. Non so se può essere una buona soluzione negli Stati Uniti, ma certamente non lo sarebbe nella sociocultura italiana. Tale organo infatti sarebbe sottoposto a enormi pressioni, negli USA soprattutto di carattere economico, da noi di carattere “politico” in senso lato, per proteggere interessi privati di vario genere. L’esperienza della Commissione ministeriale per la psicoterapia dovrebbe insegnare.
* G) Qual è la situazione italiana in relazione a questo dibattito USA?
Molto arretrata, nonostante la legge sulla psicoterapia sia, al contrario, molto avanzata anche rispetto agli altri pesi europei.
* H) Cosa sanno i media, i cittadini, l’opinione pubblica di quali sia il valore aggiunto del lavoro dello psicologo clinico?
Ben poco. Per quanto riguarda la psicoterapia, almeno. L’immagine che della psicoterapia forniscono i media, ad esempio, e hanno fornito finora, è appiattita su stereotipi (v. Borgo S. L’immagine della psicoterapia nei media, Il Nuovo Medico d’Italia, 2000). Prendiamo ad esempio la caricatura mediatica della psicoanalisi: il cliché cinematografico ci restituisce una pratica che occupa il paziente per molti anni in una posizione subordinata e passiva, con vincoli rigidi, rendendolo così dipendente da professionisti; dei quali si mostrano talvolta debolezze umane paragonabili a quelle dei loro pazienti (v. “Zelig” di W. Allen, “La stanza del figlio” di N. Moretti). Una pratica, si badi bene, in cui un professionista si arroga il diritto di conoscere meglio del paziente stesso quali siano i suoi “veri” desideri, impulsi, motivazioni, ricordi, conflitti, problemi, ecc… Non sorprende che il pubblico rimanga perplesso e restìo a fruire dei servizi degli psicoterapeuti in generale. Con i danni che ne derivano.
Per concludere, a mio avviso, la psicologia clinica può e dovrebbe recuperare il credito perduto nel secolo scorso, attraverso il riferimento unico e costante alla ricerca scientifica e alla teoresi da questa derivata, con la piena consapevolezza dei problemi metodologici che questa comporta. E’ un percorso già intrapreso, anche se residui di una mentalità pseudoscientifica rimangono numerosi. “La difficoltà – come scriveva Keynes (1937) – non sta nelle nuove idee, ma nel liberarsi da quelle vecchie, che si ramificano in ogni angolo della nostra mente“
Lucio Sibilia
Riferimenti
- Castelnuovo et al. (2004) Un’analisi critica degli “Empirically Supported Treatments” (ESTs) e della prospettiva dei “fattori comuni” in psicoterapia. Rivista Europea di Terapia Breve Strategica e SistemicaN. 1, 215-232.
- Keynes J.M. (1937) The general theory of employment. The Quarterly Journal of Economics, Vol. 51, No. 2 , 209-223.
- Sibilia L. (2009) Efficacia delle psicoterapie: alcuni miti da sfatare. Idee in Psicoterapia, Vol.2 n.3, 15-31.
- Vignoli F. (2009) Pensare il modello standard in psicologia clinica.Boopen, Napoli.
24 maggio 2010
Mi trovo perfettamente d’accordo con la lucida analisi di Lucio Sibilia. Aggiungeri che, paradossalmente, la psicologia clinica vive in un costane atteggiamento di negazione nei confronti delle sue problematiche storiche. Dico paradossalmente, perchè dopo essere nata dall’opera di Freud, che tanto ebbe a teorizzare e lavorare sul concetto di “rimozione”, ora si trova essa stessa, nel suo complesso, a voler “rimuovere” costantemente la sua incapacità di adeguarsi alla cultura contemporanea. La cultura contemporanea è dominata dal pragmatismo e dal primato della scienza sulle altre forme di “sapere”: giusto o sbagliato che sia, così vanno le cose. In tutto questo, la psicologia clinica ha quindi formulato, nel suo complesso, questa soluzione di adeguamento: “Anche la psicologia è una scienza, ma a modo suo”. Come ha sottolineato nel suo intervento Lucio Sibilia, aggrappandosi disperatamente al “relativismo culturale”, di stampo socio-genetico, perorato dai post-modernisti e da alcuni altri illustri epistemologi, gli psicologi (una buona fetta) hanno inteso proporre una versione “sui generis” della scienza, facendosi forti del fatto che nessuna forma di conoscenza può essere considerata superiore alle altre: ogni disciplina parte dai presupposti epistemologici che vuole, arrivando comunque sempre ad “inventare” significati socialmente condivisi. Essendo, quindi, anche la cultura scientifica frutto di questa “costruzione” sociale, ognuno può riservarsi il diritto di costruire la conoscenza che vuole, sui presupposti che vuole. Si tratta del nucleo concettuale del cosiddetto “costruttivismo”, il quale sfocia, inevitabilmente, nella concezione della conoscenza nei termini di “ermeneutica socialmente condivisa”. Il problema è che, come tutti sanno, è stato lo svolgersi dello stesso dibattito tra epistemologi, vedi Habermas, Grunbaum ecc., a creare una netta distizione tra “cultura umanistica” e “cultura scientifica”: ciò che è ermeneutica appartiene alla cultura umanistica, e si colloca in una posizione parallela alla cultura scientifica. Quando, però, si è andati a dire ai costruttivisti, ed agli psicoanalisti, che la natura prettamente ermeneutica del loro procedere conoscitivo li colloca fuori dalla cultura scienitica, la risposta è stata: “Non lo accettiamo, non è vero. Anche la nostra è una scienza. Una scienza allineabile alle scienze naturali”. Ed ecco allora cosa intendevo, quando parlavo di “rimozione” della psicologia clinica nei confronti dei suoi problemi storici. In realtà, tutte queste discussioni epistemologiche portate avanti nel tempo dagli psicologi, queste continue e sterili polemiche, non hanno alcun senso. Basta aprire un qualsiasi manuale di metodologia della ricerca scientifica, per trovare, semplicemente e chiaramente, cosa sia la cultura scientifica: “La scienza è empirica”; “La scienza è parsimoniosa”; “La scienza fa seguire la fase esplicativa alla fase descrittiva dei fenomeni di studio”; “La scienza non viene fatta veicolando le idee sulla base del prestigio personale; “La scienza è basata sul metodo ipotetico-induttivo”; “La scienza è basata sulla falsificabilità dei risultati di ricerca”…e via dicendo. Quella della scienza è una cultura ben precisa, c’è poco da discutere. O si è parte di questa cultura o non lo si è. Arramipcarsi sugli specchi del ragionamento epistemologico “ardito” non serve a nulla. E’ un pò come se i tedeschi pretendessero affermare, di parlare una lingua che è una “forma di italiano”. Ovvero a dire: “Anche noi tedesci parliamo, a modo nostro, l’italiano. La lingua tedesca è la lingua tedesca, la lingua italiana è la lingua italiana. Non c’è da discutere. Uscendo di metafora, anche la culura scientifica ha un insieme di regole e di principi ben precisi. Anche volendola considerare una mero frutto di costruzione sociale, per niente più valida delle altre costruzioni sociali di conoscenza, la cultura scientifica è qualche cosa di ben definito: questi decenni di dibattito epistemologico sulla scientificità della psicologia clinica sono solo il frutto della malattia mentale che affligge la psicologia clinica. Più che una rimozione, un vero e proprio diniego psicotico.
27 maggio 2010
Questo eterno prendersela con i Media, con la “scienza” ecc.
Come se medici ed ingegneri se la prendessero con Bruno Vespa in mancanza di lavoro e credibilità.
Cominciamo dal nostro Albo invece: chi lo rappresenta? Da chi è costituito? Quali esami e competenze detiene l’iscritto all’albo degli psicologi? Lo sanno i “Media” che “psicologo” è una parola che può rappresentare sia un laureato in lettere che uno in pedagogia o sociologia? Lo sanno i Media che uno “psicologo” , nella quasi totalità dei casi, non ha mai sostenuto un solo esame a carattere anatomico, farmacologico, fisiologico ecc?…..ci lamentiamo di esser bistrattati, ma pensiamo che manca poco a che i “Media”scopriranno tutto questo paese dei campanelli, questa armata Brancaleone inventaticcia, filosofico-pedagogico-letteralmagistrale…..altro che credibilità scientifica: la maggior parte dei miei colleghi non sanno computare la differenza tra empirico e sperimentale, tra un neurotrasmettitore ed un acido nucleico…..arriverà la bufera, e sarà solo colpa del nostro non aver saputo darci un assetto credibile.
Nel frattempo i soliti soloni, che poi son quelli inboscati nell’albo con la laurea sbagliata, o peggio senza laurea ( è vero accertatevene, chiedetelo ai presidenti regionali)…..continuano a prendersela coi giornalisti, con quelli che si presentano come “criminologo” magari dopo un ottimo corso di qualificazione che ha il solo difetto di non avere l’imprimatur corporativo; che si vergognino….che tornino a scuola, una scuola vera, prima di venirmi a blaterare di scienza….rispetto per Galileo, che si accontentino di Eco e Galimberti, quella è materia per le loro chiacchiere….”La Chiacchiera”, appunto.
27 maggio 2010
Condividendo appieno concetti ed argomentazioni a riguardo, ritengo utile richiamare l’attenzione sulla formazione di base. Con il vecchio ordinamento ricordo che vi era nel triennio l’idirizzo sperimentale al quale ovviamente la maggior parte degli studenti non afferiva. La mia esperienza universitaria diversamente si era articolata anche in questa direzione. Pur essendo un clinico sostenni come esami complementari quasi tutti quelli ( 5/8 ) obbligatori per l’indirizzo sperimentale. Ad oggi pur ( o forse per fortuna) non essendo specializzato in nessun indirizzo teorico psicoterapuetico vivo con normalità il fatto che nella mia attività di clinico debbano esservi presenti i dettami ( teorie, tecniche e metodi) appresi in passato.
Dunque in conclusione, forse sarebbe utile rivedere alla fonte i programmi universitari impostando sin dall’inizio gli studenti a fruire di un pesiero scientifico improntato sul metodo omonimo. Così facendo si avvicinerebbero i linguaggi della psicologia direttamente a quelli della medicina e delle altre scienze, senza dover vivere spesso la frustrazione nel sentire di mancare di qualcosa quando occorre spiegare e definire aspetti a noi arcinoti ma che per gli ” altri” suonano ancora come poco comprensibili e credibili
27 maggio 2010
il punto secondo me è molto semplice. Quale tipo di epsistemologia la psicologia clinica fa propria? Qui bisogna decidersi! Se per scienza intendiamo che la psicologia clinica debba rifarsi all’epistemologia di stampo medicalistico, diciamolo subito così gli psichiatri che pensano che la psicologia altro non sia che una branca della medicina sono serviti di tutto punto. In tal modo i medici-psichiatri avrebbero ragione ad affermare che la psicologia clinica dovrebbe essere materia soltanto dei medici (una volta la psicologia clinica si chiamava psicologia medica, con una crasi evidente quanto assurda). Ci siamo chiesti quale tipo di psicologia clinica viene insegnata nelle facoltà di psicologia o nelle scuole di specializzazione o praticata negli ospedali o in altre istituzioni pubbliche e private? Che tipo di psicologia clinica viene proposta ai clienti o pazienti o utenti in cerca di aiuto?
Gli psicologi e quelli clinici in particolare devono decidersi se continuare a scimmiottare gli psichiatri o se vogliono una volta per tutte far propri uno statuto o meglio una epistemologia propria della psicologia senza per questo perderci in “scientificità”, riappropriandosi una volta per tutte di una materia che dovrebbe essere degli psicologi e non dei medici.
23 marzo 2011
Ora che leggo questo commento di “lucien”, anche se anonimo e datato, vorrei brevemente rispondere. Non conosco l’epistemologia “di stampo medicalistico”. Anche se non sono un’epistemologo, alcune cose basilari penso che non andrebbero dimenticate. Primo: l’epistemologia è una disciplina unica, che esamina la scienza e riflette sulla natura della conoscenza scientifica. Non esistono quindi “diverse” epistemologie. Secondo: anche se è vero che esistono vari orientamenti epistemologici, questi semplicemente mettono in luce aspetti particolari dell’impresa scientifica; nessuno di essi pretende o riesce ad esaurire tutto il campo, nel senso che nessuno riesce a rendere conto per intero della complessità dell’attività scientifica. Terzo: gli orientamenti presenti nell’epistemologia sono stati variamente descritti. Una suddivisione che trovo molto utile è la seguente: orientamento empirista, orientamento razionalista, orientamento storicista, orientamento pragmatista (non saprei proprio dove mettere quello “medicalista”!). Possiamo riflettere su qualunque scienza sulla base di questi orientamenti. Ma nessuno di essi attribuisce una patente di scientificità ad alcune discipline piuttosto che ad altre, ad alcune teorie piuttosto che altre.
Stiamo invece assistendo ad un accaparrarsi da parte di clinici e talvolta anche ricercatori di “pezzi” di riflessioni epistemologiche, trascelti arbitrariamente tra quelli che sembrano più in sintonia con le proprie teorie, per poter ricoprire queste ultime con una vernice di scientificità. Alle prime obiezioni costoro si difendono rivendicando una “propria epistemologia”, invece di chiarire semplicemente quale sia la specificità dei propri metodi, talché ci consentono di considerarli scientifici.
Credo che quegli psicologi clinici (alla pari di molti psichiatri) che adottano queste pratiche continuano a contribuire al discredito del proprio campo disciplinare.
Invece, altri psicologi clinici, così come altri psichiatri si attengono al metodo logico-empirico che chiamiamo scientifico, pur nelle proprie specificità, contribuendo così al progresso delle conoscenze e all’abbandono di false conoscenze.