L’etica del prendersi cura
04/10/2009
GALASSIAMENTE
L’etica del prendersi cura
ROSALBA MICELI
“Prendersi cura” (caring) del prossimo presuppone la relazionalità coinvolgendo i sentimenti, la partecipazioni emotiva alle difficoltà e sofferenze altrui (empatia), la compassione. La “sofferenza empatica” costituisce la motivazione primaria che spinge all’azione non consentendo di sottrarsi dalle responsabilità e quasi “obbliga” ad intervenire concretamente in aiuto. Seguendo la teoria dello sviluppo morale elaborata da Martin Hoffman, professore di psicologia alla New York University (teoria psicologica della condotta prosociale che integra affetto, cognizione ed emozione), nell’individuo adulto l’obbligo etico nasce spontaneamente dall’interno, come espressione di principi interiorizzati di cura, giustizia e affermazione del proprio sé; non è e non può essere imposto da regole esterne, o rinforzato da punizioni e premi.
Nell’ambito del progetto “Criterio ben.essere: prendersi cura di chi cura” del Piano Formativo 2009 della Provincia di Lecco, l’IRCCS “E. Medea – La Nostra Famiglia” organizza, tra ottobre 2009 e marzo 2010, il corso di formazione “L’etica del prendersi cura”, a partecipazione gratuita, presso la sede di Bosisio Parini (Lecco), con l’obiettivo di stimolare la riflessione e il confronto tra operatori impegnati quotidianamente nella relazione con l’altro in contesti di cura. Durante il corso verranno affrontati con l’apporto di esperti e l’utilizzo di un web-forum, i risvolti etici della relazione di aiuto, a partire dallo sguardo sull’altro per poi concentrarsi su di sé (quali professionisti della cura che esercitano un’attitudine interiore e un impegno attivo di attenzione verso i soggetti più vulnerabili).
Dall’incontrarsi ed intrecciarsi dei due sguardi (le due prospettive di ascolto ed attenzione) si sviluppa la relazione di aiuto. Si deve allo psicologo statunitense Carl Rogers, pioniere nello studio dell’empatia, una delle prime formulazioni della relazione di aiuto “come una situazione in cui uno dei due partecipanti cerca di favorire, in una o ambedue le parti, una valorizzazione delle risorse personali del soggetto ed una maggiore possibilità di espressione”.
Tuttavia, spiega Hoffman nel saggio “Empatia e sviluppo morale” (il Mulino), dove raccoglie i risultati di trent’anni di ricerche, l’empatia non ci porta a condividere le emozioni degli altri in modo imparziale, ma è vulnerabile ad alcune distorsioni (bias), ovvero spesso tende ad aprirsi solo ai problemi del gruppo sociale cui si appartiene (bias di familiarità), verso chi è più vicino e visibile (bias di vicinanza), mentre il bias di immediatezza spinge a prestare maggiore attenzione alla sofferenza di una persona presente rispetto a quella di una persona assente.
Come stabilire la giusta vicinanza nella relazione di aiuto? Aprire gli occhi sul mondo dell’altro e vederlo per quello che è realmente richiede innanzi tutto l’abilità di non essere centrati su se stessi. Bisogna essere sufficientemente calmi e disposti all’ascolto per decodificare il contenuto della comunicazione nei sentimenti e nelle emozioni corrispondenti: sentire la gioia, la tristezza, l’ira, la paura, il turbamento dell’altro, senza aggiungervi la propria paura, il proprio turbamento.
Particolarmente complesso appare il processo della “sovrattivazione empatica”, una condizione che si realizza involontariamente se la sofferenza empatica dell’osservatore diviene così intensa da trasformarsi in un vivo sentimento di sofferenza personale; a quel punto l’osservatore può innescare la “deriva egoistica”, spostando l’attenzione dalla vittima a se stesso. Evita la sovrattivazione empatica e la conseguente deriva egoistica chi riesce a regolare il coinvolgimento o è empaticamente “impegnato” (committed) verso con l’altro (o gli altri), come avviene nelle relazioni in cui l’empatia, l’affetto o le esigenze di ruolo fanno in modo che una persona si senta quasi obbligata a prestare aiuto. In questi casi è finanche possibile che la sovrattivazione empatica alimenti ed intensifichi l’impegno ad aiutare chi si trovi in difficoltà. Colui che mette in atto una relazione di aiuto deve acquisire dunque la consapevolezza ed il controllo del processo, padroneggiando abilità che giungono a diventare un tutt’uno con se stesso.