Meno-pausa, più a lavoro….

di Ilaria Fabbri

“L’archetipo del Senex trascende la senescenza
puramente biologica ed è dato fin dall’inizio
nella psiche e in tutte le sue parti come possibilità
di ordine, di significato, di realizzazione teleologica e di morte.
E’ la morte che viene con la perfezione e con l’ordine.”

James Hillman

“Ho lavorato in fabbrica per 40 anni consecutivi…e adesso non ne posso proprio più! L’idea di rimanerci ancora dieci anni mi sconcerta…”. Da queste parole, pronunciate da un paziente appena cinquantacinquenne durante una seduta nella quale stavamo analizzando il senso di incertezza e di impotenza che il recente innalzamento dell’età pensionabile ha prodotto in lui, nasce questa riflessione. E non solo da queste sue parole, ma anche (e forse più) dall’analisi della sua personale esperienza, probabilmente comune a molte altre: quella di una persona anagraficamente e fisicamente giovane, entrata in fabbrica prestissimo sognando di uscirne in tempo per dedicarsi ad altro, la storia di una persona che ha visto scorrere davanti ai suoi occhi i multiformi scenari economici, politici e sociali che hanno caratterizzato il mondo del lavoro durante tutti questi anni. La storia di una persona che cognitivamente ed emotivamente non si riconosce più nel sistema-fabbrica di oggi, nel suo precariato, nel dilagante individualismo operaio, nella perdita di potere contrattuale… Una persona che in altre parole si sente ormai troppo “vecchia” per questo sistema.

Recentemente una collega, la dottoressa Sebastianelli, lanciava l’allarme contro le possibili ripercussioni psicologiche del prolungamento forzato dell’attività lavorativa (http://www.ilgiornale.it/interni/le_post-pensionate_donne_sulorlo_crisi_nervi/cronaca-lavoro-donne-pensioni-psicologia/07-12-2011/articolo-id=561088-page=0-comments=1), in particolare per quanto riguarda le donne della “generazione sandwich”, per usare una definizione della giornalista e scrittrice Loredana Lipperini (1), cioè quelle donne lavoratrici, schiacciate tra genitori anziani e bisognosi di essere accuditi, nipoti da guardare o figli non ancora sistemati e per questo dipendenti dai genitori. Se da un lato l’ennesimo innalzamento dell’età pensionabile rappresenta un altro passo verso lo smantellamento del welfare e quindi un potenziale fattore di rischio per lo sviluppo di disagio psicologico, disturbi psico-fisici o vere e proprie patologie depressive, dall’altro non possiamo provare a figurarcelo come un mezzo per rimanere più attivi più a lungo e quindi, paradossalmente, un aiuto utile ad invecchiare meglio?

Nel resto di Europa l’andamento del sistema pensionistico è del tutto coerente con quello italiano: in Francia la vita contributiva salirà a 41 anni entro il 2012 e a 42 entro il 2020, a breve in Austria i lavoratori riceveranno la pensione solo dopo i 65 anni, in Germania dopo i 67, nel Regno Unito e nei Paesi Scandinavi attualmente si va già in pensione a 65 anni, ma è previsto di innalzare la soglia del pensionamento fino a 67 anni. Questo andamento sembra procedere in modo direttamente proporzionale all’invecchiamento della popolazione. Nel 2009 la Commissione Europea parlava di “bomba sul futuro” in riferimento alle statistiche secondo le quali nel 2050 soltanto il 23% dei cittadini europei avrà meno di 25 anni, un terzo della popolazione sarà costituito da ultrasessantenni e gli ultraottantenni passeranno dall’attuale 4% all’11%. Le previsioni per l’Italia sono ancora più critiche: i giovani rappresenteranno appena il 20% della popolazione, mentre gli ultraottantenni ne costituiranno ben il 14%! Alla luce di questi dati sconcertanti, possiamo provare a tracciare l’identikit dei pensionati di oggi? E chi saranno i pensionati di domani?

Secondo il rapporto ISTAT di Luglio 2009, soltanto le famiglie che comprendono al loro interno almeno un componente anziano mostrano una diminuzione dell’incidenza di povertà (di un punto percentuale: dal 13,5% al 12,5%), che si fa ancora più evidente se in famiglia sono presenti due o più anziani (dal 16,9% al 14,7%). Sempre più spesso sono i così detti “nonni”, ad aiutare i giovani, soprattutto in contesti meno urbanizzati. Scrive la Lipperini: “…il 43% dei nonni contribuisce economicamente e fisicamente, sostituendosi allo Stato laddove gli asili nido e gli asili aziendali latitano…” (pag. 45) e ancora “…se venissero a mancare le nonne, crollerebbe quel sistema fragilissimo che sul volontariato femminile è basato…” (pag. 75). Altri dati smentiscono questo quadretto quasi idilliaco, descrivendo una realtà ben diversa in cui un pensionato su quattro percepisce meno di €. 500 al mese, mentre il 27,7% ha una pensione compresa tra 500 e 1000 €. mensili e, considerando che la soglia di povertà relativa è fissata a €. 999,67 mensili, possiamo ben dire che la metà dei 16,8 milioni di pensionati italiani si colloca sotto questa soglia (dati ISTAT  INPS di Giugno 2010). Risultati simili erano già stati evidenziati nel 2006 da un’indagine condotta a Torino (1), secondo la quale il 55% degli intervistati dichiarava di non riuscire a mettere da parte neanche un euro, destinando buona parte della pensione ad affitto, spese condominiali, riscaldamento, trasporti, alimentazione, telefono fisso o cellulare e naturalmente ai farmaci non coperti da ticket. Qualche volta i pensionati rubano piccole cose nei supermercati: scatolette di tonno, una vaschetta di prosciutto, un dolcetto di cioccolata: lo fanno  per fame, per disperazione, perché non arrivano a fine mese, ma qualunque sia la motivazione non può che essere straziante. I dati statistici descrivono la popolazione anziana come generalmente poco alfabetizzata e con un livello di istruzione molto basso, rappresentato per la maggioranza dalla licenza elementare. Non dobbiamo dimenticare poi che proprio i più anziani sono quelli maggiormente afflitti da patologie croniche e invalidanti, soprattutto a causa degli enormi progressi tecnologici e scientifici della medicina che, se da un lato è diventata particolarmente efficace ad intervenire sulla patologia acuta, dall’altro ha prodotto un aumento della disabilità totale o parziale: si muore meno e si vive più a lungo, certo, ma spesso la qualità di questa vita lascia molto a desiderare.

Allora chi sono i pensionati di oggi? Sono come ci mostrano gli spot televisivi, cioè allegri e gioviali vecchietti che sembrano godersi un sacco la vita dentro balere colorate e luminose, sgranocchiando noccioline e popcorn, incuranti delle loro dentiere? Sono anziani saggi e raffinati che possono permettersi di viaggiare in lungo e in largo grazie al loro fisso mensile? Sono “angeli del focolare” che tengono unite le famiglie, sostenendo economicamente i figli e occupandosi fisicamente dei nipoti? Oppure sono la porzione più fragile della società, quella maggiormente colpita da patologie croniche e invalidanti, dall’apatia della mancanza di stimoli, dalla solitudine che li porta durante il week-end (cioè nei giorni di libertà delle badanti e dei medici di base) ad affollare, spesso con un codice bianco, le sale di attesa del pronto soccorso? La risposta è complessa, almeno quanto lo è la materia umana. E’ sicuramente riduttivo cercare di rinchiudere le persone dentro una sola categoria per quanto vasta essa sia.

I fermenti sociali di questi ultimi anni si stanno muovendo prevalentemente verso la negazione a tutti i costi della vecchiaia. Basta pensare a celebri personaggi dello spettacolo che sfoggiano pelli lisce come la seta e decolleté da ventenni (e questo vale per le donne) o carnagioni color mattone (riarso), merito delle tante lampade UV che dovrebbero garantire un aspetto salutare e giovanile (e questo vale prevalentemente per gli uomini). Le spinte sociali premono fortemente verso lo schiacciamento delle differenze anagrafiche: tutto si muove in direzione della giovinezza eterna, qualche volta anticipata, quando sono le bambine ad atteggiarsi già come piccole adulte, oppure fuori tempo massimo, quando persone mature si comportano ancora come “giovanotti”, ma comunque sempre modellata sull’immagine di “..adulti magnifici, sani, magrissimi, possibilmente ricchi, obbligatoriamente felici…” (Lipperini, pag. 24). E a questo proposito mi tornano in mente le parole di Francesco Guccini che qualche anno fa scriveva in una canzone: “..e dico addio alle commedie tragiche dei sepolcri imbiancati, ai ceroni ed ai parrucchini per signore, alle lampade e tinture degli eterni non invecchiati…”. Già, come se davvero fosse possibile dissociarsi da un condizionamento sociale di queste proporzioni (che niente ha a che vedere con il sano prendersi cura di sé!) quando, a dispetto dell’età anagrafica reale, il 35% degli italiani si definisce “adolescente” (5%) oppure “giovane” (30%) (2007- Indagine Demos-Coop).

Sembriamo dimenticarci sempre più spesso che ogni cosa vivente ha un suo ciclo vitale. Negare l’invecchiamento significa negare il senso biologico della nostra esistenza che poi è semplicemente quello di nascere, riprodursi, morire. Anche se c’è modo e modo di invecchiare. Secondo alcuni autori si può parlare di invecchiamento positivo quando si riscontra la presenza di buone risorse fisiche e cognitive, oltre al mantenimento di una vita socialmente attiva (2) (3). Altri descrivono un invecchiamento primario, legato ai processi fisici geneticamente determinati di deterioramento graduale, e un invecchiamento secondario, risultato di fattori non genetici, sul quale ogni persona può intervenire attivamente mantenendo uno stile di vita salutare (4). Ma in fin dei conti a fare la differenza sembrano essere soprattutto i mezzi che si hanno a disposizione, vale a dire le condizioni di partenza: se si possiedono cultura, denaro e relazioni sociali, banalmente, allora non si invecchia.

Infine, per concludere, altri dati. In Italia il tasso di occupazione tra i lavoratori così detti “anziani”, cioè di età compresa tra 50 e 64 anni, si attesta intorno al 38%, contro il 72% della Svezia e il 65% della Danimarca, anche quando ormai molti studi hanno dimostrato che la produttività è ancora molto elevata dopo i 55 anni (1). Allora, per rispondere alla domanda iniziale, onestamente io non saprei dire se l’innalzamento dell’età pensionabile rappresenti più un rischio per lo sviluppo di disagio psicologico oppure una risorsa utile a mantenere le persone più attive più a lungo, ma sicuramente, giusto o sbagliato che sia, rappresenta uno strumento necessario ad arginare la spesa sociale. Come psicologi, a mio avviso, l’obiettivo che non possiamo proprio perdere di vista è la qualità dell’invecchiamento, che include una buona capacità di adattarsi ai tempi. Vivere meglio, non solo più a lungo. Questo aspetto è particolarmente evidente nella scelta delle parole: “vecchio” e “anziano” sono due aggettivi praticamente equivalenti dal punto di vista dell’età anagrafica e delle sue manifestazioni esteriori (rughe, capelli bianchi, acciacchi, debolezza fisica..), ma suonano completamente diversi dal punto di vista della connotazione emotiva. Ragionare in termini di anzianità significa infatti valorizzare quella condizione di esperienza e prestigio che le persone raggiungono solo in età avanzata, una dimensione interiore, psicologica e intellettuale che manca completamente nel concetto di vecchiaia (5). E io posso semplicemente augurarmi che qualsiasi riforma politica ragioni sempre più in termini di anzianità e meno di vecchiaia.

Riferimenti bibliografici:

(1)     Lipperini, L. (2010). Non è un paese per vecchie. Feltrinelli Editore, Milano
(2)     Rowe, J. W. & Khan, R. L. (1996). Successful Aging, The Gerontologist, 37(4): 433-440
(3)     Depp, C.A. & Jeste, D.V.(2006). Definitions and predictors of successful aging: a comprehensive review of larger quantitative studies. American Journal of Geriatric Psychiatry, 14, 6–20
(4)     Pietrantoni, L. (2001). La Psicologia della Salute. Carocci Editore, Roma
(5)     Cosenza, G. (2008). La donna trans-age, in Visioni di moda, a cura di Mascio A. Franco Angeli Editore, Milano

Gabriella Alleruzzo

Author: Gabriella Alleruzzo

Share This Post On
You are not authorized to see this part
Please, insert a valid App IDotherwise your plugin won't work.

Submit a Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *